Caro Calenda, il libro fa stare più soli del videogioco. Ma è un male?

Ogni volta che qualcuno, come l’ex ministro Calenda, ieri, si scaglia contro la tecnologia che aliena e spara una filippica per salvare i nostri bambini dalla solitudine la mia prima reazione, confesso, è di sorridere.

Un po’ perché l’uscita dell’ex ministro mi ricorda tanto quella della signora Lovejoy, la moglie del pastore dei Simpson, che per ogni cosa nuova emette l’allerta gridando “I bambini, pensate ai bambini!”. Ma soprattutto perché quando sento che i videogiochi, o Facebook, o Instagram, o la tv o qualsiasi cazzabubbolo tecnologico non appena arrivato va vietato vietatissimo perché sennò le giovani generazioni, signora mia, cresceranno isolate e solitarie, a me viene da rispondere che uno strumento di sicura alienazione c’è già da secoli, e nessuno però si sogna di vietarlo. È il libro,

Pensateci. Soprattutto voi che siete, come me, lettori. Il libro è un oggetto che ti costringe a stare solo. Ti porta via dal mondo, persino quando ci sei immerso dentro. Sei in un autobus affollato, nel caos di un androne dove la gente passeggia, ad un tavolino di un bar del centro nel mezzo del casino più assoluto. Ma tu, che hai un libro, lo usi come una barriera. Quando apri lui, gli altri spariscono, si allontanano, non ci sono più. È uno strumento di alienazione potente più di un sortilegio di mago Merlino. Con la fantasia il libro ti trascina in mondi chiusi a chiunque altro non sia tu. Dialoghi, sì, con l’autore, ma in sostanza monologhi con te stesso. Il libro fa di te una perfetta monade leibniziana: sei in risonanza con il mondo, ma separato da esso.

Li vogliamo vietare, i libri? No, anzi. Chi si scaglia contro i videogiochi, e internet, e i social, non fa altro che consigliargli come alternativa valida e necessaria. Perché con il libro, dicono, rifletti, impari, sviluppi la fantasia.

Ecco, ma pensiamoci un attimo. Come si sviluppano queste cose? In mezzo al caos delle chiacchiere? In perenne contatto con il mondo? No. Quando si è da soli.

È quando uno è da solo, e si annoia del vuoto cosmico della sua solitudine che inizia a pensare. È quello il momento in cui cominci a farti domande per capire se c’è qualcosa che non va, se il fatto che tu stia sempre così solo sia un destino o una scelta, che cerchi di scoprire come riempire quel vuoto con qualcosa che ti interessi davvero. La letteratura, la musica, i giochi, i pensieri, le poesie, lo sport sono i nostri tentativi di riempire le ore in cui altrimenti ci annoieremmo a morte e si sentiremmo inutili. L’adolescenza è il periodo in cui si pensa di più non tanto e non solo per gli ormoni impazziti che cozzano nel cervello, ma perché si ha più tempo per farlo, prima che il lavoro, la famiglia, la vita ti risucchino e ti travolgano.

Mi creda, Calenda, il problema dei ragazzini (e anche degli adulti) non è che si alienano con i giochi e stanno troppo soli. È che ci stanno troppo poco. Non sono abituati. Persino noi adulti riempiamo le loro giornate di troppe cose, troppi impegni sociali, troppe occasioni in cui frequentano altri e sono costretti a starci assieme. Li portiamo in palestra, in piscina, a danza, al corso di inglese, a canto, a catechismo, creiamo ad arte occasioni per farli stare forzatamente con i coetanei, regaliamo loro i giochi istruttivi da giocare assieme a mamma e papà nel weekend, stiamo assieme a loro in ogni momento della vita, preoccupati che se stanno venti minuti da soli crescano isolati e pieni di turbe.

No, credetemi, lasciamoli un po’ da soli. Lasciamoli giocare in santa pace al loro videogioco, prendere un libro e starsene per i fatti loro, persino ogni tanto guardare il muro da soli ed annoiarsi. Questo mito della socialità a tutti i costi, quest’obbligo sociale della compagnia inibisce la loro capacità di sviluppare gusti personali che non siano condivisi da un gruppo, di pensare da soli, di saper anche, alle volte, affrontare da soli con coraggio un problema. L’uomo è un animale sociale, d’accordo, ma non sempre e non h24.

Chi usa i videogiochi spesso e volentieri gioca in gruppo, poi, con altri utenti. Lei li vede soli davanti ad un device, ma in realtà sono un gruppo sparso per tutti i cantoni del mondo. Se proprio vuole essere coerente con le sue preoccupazioni sull’alienazione, si preoccupi quanto vede un pupetto o una pupetta che legge concentratissimo un libro. In quel momento il bimbo è solo e sta ragionando con se stesso.

Ma anche in questo caso, mi dica, trova davvero che sia così pericoloso?

 

 

3 Comments

  1. stare da soli serve e come. Serve per riflettere, per fantasticare oltre alle attività ludiche solitarie. Non si cresce orchi ma si matura e si impara anche ad ascoltare.

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  2. Galatea, non saprei. Non ho seguito tutto il discorso di Calenda, ma credo che fosse una normale preoccupazione del genitore per le regole da tenere in famiglia. E’ vero che ognuno può avere la sua sensibilità, ma mi sembra che sia una preoccupazione che tutti abbiamo avuto. Magari con esiti fallimentari, ma questa è la vita.

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  3. D’accordissimo. Anni fa mi trovai a dire a una nipote: “Le cose importanti della tua vita, le vivrai da sole.” A parte la tara del mio autismo, lo credo vero per tutti.

    Una sola considerazione. credo che l’offerta di esperienze importanti dei libri sia mediamente molto maggiore che quella di social e videogiochi.

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