Taragnin e il mal di pancia per il 25 aprile

Il 25 aprile per il Sempresindaco Taragnin è una giornata fastidiosa. Dopo tanti anni dovrebbe essere riuscito a venirci a patti, e invece no. Riconosce i sintomi, come per la cefalea: cominciano una settimana prima con un leggero fastidio alla bocca dello stomaco, che non è nausea, ma quasi, e poi peggiorano via via che si avvicina la fatidica data.

Perché il Sempresindaco Taragnin il 25 aprile proprio non lo sopporta. È una cosa che ricorda fin da piccolo, quando i suoi amici andavano in corteo, felici e festanti, con le bandiere rosse e i fazzolettini al collo. Per una settimana non facevano altro che raccontare le gesta dei loro papà, zii, zie e madri partigiane. Che avevano liberato l’Italia, sparato ai tedeschi, manganellato fascisti, portato ordini segreti, nascosto ebrei. Che avevano marciato alla testa di cortei, ascoltato discorsi di Pertini o di Nenni, ballato in mezzo alle aie o dentro alle fabbriche.

E lui no. Lui, il Sempresindaco, che allora non era Sempresindaco, e nemmeno sindaco, ma semplicemente Carletto, non aveva nulla da dire. Anzi, era meglio che non dicesse proprio niente. A casa sua la Resistenza non si era fatta, non si era nemmeno vista da lontano. Non c’erano stati padri o madri antifascisti, e nemmeno zie e zii, e neanche qualche lontano cugino, anche perché l’unico cugino che venisse in casa era il nonzolo di Santa Fosca, la parrocchia del paese, che aveva schivato tutti i fronti grazie alla raccomandazione del Vescovo e che durante tutta la guerra si era arricchito vendendo a caro prezzo alla borsa nera le uova delle galline della parrocchia e gli ortaggi coltivati di nascosto in oratorio.

Lo ha sempre odiato, il 25 aprile. Cosa dovrebbe festeggiare, Carlo Taragnin? I suoi non sono stati liberati dal Fascismo, perché il Fascismo non li aveva mai oppressi. Non erano stati fautori di un dittatura, ma semplicemente non si erano nemmeno accorti che ci fosse, e le rare volte che vi avevano fatto caso avevano deciso che in fondo era meglio così. Erano contadini, di quelli che a stento avevano un paio di zoccoli e un vestito. Il Duce aveva garantito loro l’ordine e il rispetto di ciò che era sempre stato: mamma andava a messa, papà bestemmiava e giocava a carte, il sabato, all’osteria. Di politica non si erano mai voluti intrigare prima, e di sicuro non si erano intrigati durante il ventennio, e nessuno li aveva infastiditi, a dimostrazione che gli altri, quelli che gridavano contenti di essere stati liberati, non erano oppressi, erano solo dei gran rompicoglioni.

Lo confermavano, appunto, il 25 aprile, quando si ripresentavano ogni anno, vestiti a festa, allegri, al corteo. Quei volti sorridenti e strafottenti a Carlo davano sui nervi. Era come se dicessero: “Lo abbiamo fatto una volta, possiamo farlo ancora!”. Già, lo avevano fatto una volta. Lo avevano fatto una volta, di lasciare il tran tran di una vita normale, delle mansioni di ogni giorno, e mettere tutto in gioco, le certezze, le sicurezze, per ribellarsi. Lo avevano fatto una volta, di rischiare la vita, la tortura, sfidare la legge.

In fondo è questo che scatena il suo malessere da 25 aprile. Il fatto che loro lo hanno fatto, una volta e i suoi no. E nemmeno lui lo avrebbe mai fatto, perché, come i suoi, il tran tran quieto della dittatura lo avrebbe soddisfatto appieno, perché quello che sogna e vuole non è la libertà, ma un ordine, per quanto piccolo, o anche la sua vuota parvenza.

Taragnin lo odia, il 25 aprile. E non perché sia fascista. È perché ogni volta che arriva si sente come se qualcuno gli rinfacciasse di essere un codardo. Uno pronto a nascondere il capo sotto la sabbia per non vedere ciò che è evidente in cambio di un qualche lacerto di comodità e un orticello da coltivare. Uno incapace di provare rabbia di fronte alle ingiustizie.

Carlo Taragnin lo odia, il 25 aprile, e se potesse lo abolirebbe. Ma no, non perché è fascista. Solo perché è un meschino. E quella festa, ogni anno, impietosa, glielo ricorda.

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