L’ambiguità del “condividi”. You Tube, Social Network e l’importanza del contesto per l’informazione

So’ responsabile de quelo che digo, no de quelo che ti capissi ti.” La simpatica massima (enunciata in veneto, il che la rende ancora più simpatica) mi fu illustrata come una regola d’oro da Gigi Cogo, nel momento in cui mi iscrissi a Friendfeed, social network in cui le baruffe a sangue fra utenti che si rinfacciano reciprocamente cose mai dette o abbondantemente fraintese sono piuttosto diffuse.

La regoletta m’è venuta in mente subito, stamattina, quando ho letto questo post di Daniele Sensi, il quale da anni porta avanti un monitoraggio dei materiali razzisti e xenofobi che appaiono su Radio Padania, postandoli sul suo blog e su pagine appositamente dedicate a curate da lui su vari social network e portali, fra cui You Tube. Già in passato a Sensi era capitato di essere indicato lui stesso come “leghista” o “razzista” da qualcuno che, capitato incautamente sulle sue pagine e lettele assai superficialmente (il termine tecnico sarebbe “a cazzo di cane”), aveva poi scritto articoli furenti denunciando lui come uno xenofobo incallito. Adesso è il problema è l’account su You Tube, che viene costantemente segnalato da utenti della stessa piattaforma come zeppo di “materiale inappropriato”, cioè razzista, xenofobo o apologetico nei confronti del Fascismo. Gli utenti, sottolinea Sensi, incrociano il suo materiale per caso, magari portati lì dalla ricerca per parole chiave: vedono il filmato o leggono la citazione di un discorso X e, senza tener conto di quello che in un libro sarebbe il “paratesto” – cioè il titolo del filmato medesimo apposto da Sensi, il titolo del blog di provenienza, o anche solo le informazioni biografiche ed il curriculum di chi quel video in quel contesto lo ha postato – partono all’assalto, lasciando decine di commenti di insulti al titolare dell’account, oppure, ancor più semplicemente, cliccando sul dislike o segnalando il contento come “inappropriato” ai gestori della piattaforma. Causando spesso, come è capitato a Sensi, notevoli guai e grane a chi immette materiale in rete per creare un archivio di riferimento, senza pensare che il fatto che egli classifichi e metta a disposizione del pubblico un certo tipo di materiale non vuol dire automaticamente che ne condivida i contenuti.

Chiunque abbia un blog e sia su dei social network ha provato, magari in forme più blande, esperienze simili: tu posti una cosa che sostiene la tesi X e misteriosamente ti ritrovi con decide di commenti che invece, fuorviati magari solo dal titolo che hai dato o dalle citazioni che inserisci nel testo, capiscono tutto il contrario e iniziano ad insultarti brutalmente. Perché?

Il meccanismo alla base di questo fraintendimento si basa, a mio avviso, alcune impostazioni mentali che gli utenti di internet hanno in un certo senso nel loro dna, e anche sull’ambiguità intrinseca di un concetto su cui i social network e la rete si basano, e cioè quello della “condivisione”.

Il mondo del blog, di cui in fondo anche quello dei Social Network è una derivazione, si basa sul presupposto che la pagina personale è, appunto, uno spazio personale dell’autore; l’equivalente – sia detto senza offesa – del muro della nostra cameretta di adolescenti. Il proprietario tende a metterci tutto ciò che gli interessa e che gli piace, esattamente come sul muro della cameretta appiccicava la foto del cantante e dell’attrice preferita, o la citazione colta del romanziere e del poeta di riferimento.

Il blog, con il tempo, è divenuto, anche per via delle sue caratteristiche tecniche, un tipo di spazio molto più evoluto e dalle potenzialità più vaste. Un post può essere lungo quanto si vuole, essere strutturato come un’inchiesta di cronaca, come un capitolo di romanzo, come un saggio breve; il blog stesso, nel caso sia tenuto da un blogger con forte personalità autoriale, diviene un assieme strutturato in maniera coerente, non solo per tipo di materiale postato, ma anche per tono scelto nella narrazione: diviene insomma un insieme coeso, un vero e proprio “progetto”.

In generale, sui blog, i fraintendimenti fra autore e lettori sono abbastanza rari: non solo perché lo spazio del post consente di spiegare il proprio pensiero in forma articolata, ma anche perché il blog, dopo un po’, si crea una cerchia di lettori fedeli e costanti, i quali hanno capito l’impostazione generale che il blogger dà ai suoi post e hanno scelto di leggerlo proprio in virtù di quella. Ragion per cui sono perfettamente in grado, magari, di cogliere un post scritto con intento ironico o sarcastico, decrittarlo e non scandalizzarsi per citazioni o affermazioni che possono sembrare apparentemente sopra le righe. Nel blog, ormai, a parte che si commenta molto poco rispetto ad un tempo, l’occasionale flame scatta, di solito, con utenti che capitano sul post per caso, portati lì dalle chiavi di ricerca dei motori: questi, che di rado hanno tempo o si prendono la briga di verificare il contesto generale in cui il post che leggono è inserito – cioè l’architettura del blog nel suo complesso – anche perché spesso arrivano a visualizzare la sola pagina che viene loro proposta, leggono un post ironico e lo prendono per serio, o viceversa, o comunque fraintendono completamente il tono usato e le citazioni inserite, soprattutto perché, molto spesso, sono capitati là cercando tutt’altro, restano delusi non trovando quello che si aspettavano e quindi sfogano la rabbia insultando il blogger. Il problema è generato nella maggior parte dai casi dal fatto che gli utenti sono arrivati là portati, come si è detto, non dalla volontà di leggere quello specifico post di quell’autore (di cui conoscono i pregi, ma anche i vezzi e l’impostazione), ma da una ricerca generica per parole chiave, o dal link trovato in un aggregatore di notizie generaliste: arrivano, insomma, totalmente “impreparati” a quello che si trovano davanti e quindi applicano, nel leggerlo, griglie di interpretazione non sbagliate in assoluto, ma inadeguate a capire cosa realmente stia sostenendo l’autore del post.

Sulla pagina di un social network questo rischio diviene ancora più alto. Facebook, ad esempio, soprattutto per chi ha una pagina visualizzabile da tutti, è un mare magno in cui naviga chiunque, dal professore universitario scafato al bimbominkia di qualsiasi età. Gioca inoltre, sui social, quell’ambiguo concetto di “condivisione”: la pagina di FB personale è vissuta ed interpretata dai più come un vero succedaneo virtuale della cameretta da adolescente, e il fatto che i link, le foto e quant’altro si “condividano” su di essa e con gli amici fa scattare la deduzione che ciò che viene “condiviso” dall’utente è in qualche modo quello che gli piace e che approva. Su You Tube la maggioranza degli utenti carica spezzoni di film e trasmissioni del cuore, canzoni che sono la colonna sonora della propria vita. I filmati “politici” o con protagonista il personaggio pubblico di turno sono postati dai supporter. Da qui si spiega il fraintendimento costante verso chi, come Sensi, usa il social in maniera anomala rispetto alla massa: se posti su You Tube un discorso di Bossi, gli utenti di You Tube penseranno, nel 90% dei casi, che lo fai perché Bossi ti piace e vuoi fargli propaganda. Se stai dall’altra parte (rispetto a Bossi, o a Casini, o a Bersani o a chi si voglia) l’utente medio di Facebook/You Tube si aspetta che sul tuo account tu posti roba (filmati, foto, note e quant’altro) che prende questi signori pesantemente per i fondelli. Questo spinge spesso ache i giornalisti delle redazioni a prendere pesanti cantonate: se trovano un sito che ha in archivio disponibili per gli utenti i discorsi di Radio Padania, ne deducono automaticamente che esso è curato da un supporter della Lega.

Anche qui dunque torniamo al solito problema, cioè quello della alfabetizzazione dell’utenza nei social netwwork e del controllo delle fonti. Su internet, come sui vecchi libri cartacei, il paratesto è importante, e l’informazione-contenuto va sempre legata al contesto in cui è inserita e proposta. I servizi come google allert, o la ricerca per parole chiave e i vari filtri rischiano di decontestualizzare le informazioni, rendendo impossibile, per chi le legge, capire i reali intenti di chi le ha messe in rete. E di far catalogare dagli utenti più superficiali come “contenuto inappropriato” un contenuto che invece è una semplice fonte storica d’archivio o materiale per ricerca. Un po’ come qualcuno che denunciasse come nostalgico fascista uno studente di storia moderna che, per motivi di tesi, si legge e cita tutti i discorsi del Duce.

13 Comments

  1. Il problema non nasce oggi, ma chiaramente è stato amplificato dalle ragioni che tu hai elencato.
    Te la ricordi quella vecchia battuta di Montanelli che diceva, dopo una serie di disavventure analoghe da lui patite, che le battute ironiche in un articolo andrebbero scritte in rosso?

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  2. Comcordo con quanto hai detto ma, purtroppo, i Social stanno togliendo un grande spazio ai Blog, SI NUTRONO dei loro contenuti. Proprio oggi ho proposto di mettere i pulsanti dei sociali sul blog che gestisco per conto del mio gruppo…

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  3. @Guido: ormai il problema è anche un po’ più complesso. Grazie ai servizi come Google alert e altri filtri si rischia di leggere solo dei pezzi di post, e da lì farsi un’idea generale dell’argomento. Che è come farsi un’idea di un autore antico avendo a disposizione, magari, solo due righe.
    @Debris: Sì, si nutrono dei contenuti dei blog, e spesso, avendo abituato il pubblico a tweet di 140 caratteri massimo, il pubblico non legge altro che il titolo.
    @Fabio: capita. E il guaio e che non si capisce molto spesso nemmeno il perché.
    @margherita fullin: Per essere usata bene bisogna anche che qualcuno ti insegni a farlo.

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  4. Da insegnante è giusto e normale che tu nutra tanta fiducia nell’educazione, che senza dubbio è un bene.
    Il comportamento da te descritto, quello del censore frettoloso, quello che la condanna gli scatta prima che si realizzi la seconda sinapsi non è indice di particolare sagacia: “non che mi interessi in particolar modo quello che scrivi – poi ci vorrebbe tempo e testa che non ho – ma penso di aiutare a tenere la rete pulita”.

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  5. Interessante. Il tuo ragionamento è piu’ che condivisibile, mi chiedo quanto possa essere universale. Per amor di discorso accademico, come se ne uscirebbe secondo te il lavoro di qualcuno che da anni portasse avanti un monitoraggio di contenuti pedopornografici?

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  6. @ugolino: il censore ben intenzionato è in genere il peggiore. La via dell’inferno è lastricata di buone intenzioni, è noto. 🙂
    @alberto: Ecco, a Baricco non ci avevo minimamente pensato…forse perché non lo leggo molto volentieri. E nemmeno Scalfari, per questo. Adesso vedo di recuperare.
    @pagnino:non saprei, dipende dalla modalità con cui il monitoraggio viene portato avanti. Sarebbe poi ben diverso il tipo di materiale monitorato, che sulla rete non si trova liberamente a disposizione di tutti, per cui per arrivare a trovare del materiale pedopornografico sarebbe necessario comunque entrare in “giri” particolari, non accessibili dall’utenza normale, quindi pubblicarlo in rete in un sito come You TUbe sarebbe ben diverso (nonché una violazione palese delle condizioni di utilizzo del mezzo).
    In questo caso, invece, si parla di materiale come filmati di tg, trasmissioni radio andati in onda in chiaro, o di articoli e dichiarazioni fatti a giornali.

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  7. C’è anche un’altra ipotesi (in realtà un corollario, perchè non è alternativa ma va a compendio): in rete non si legge in maniera lineare ma a salti, non si segue un binario ma si va a dorso di cavalletta. Questo determina un fatto interessante, ovvero di salto in salto si nota solo quello che a priori abbiamo deciso di vedere, il sostegno alla teoria che abbiamo deciso di sostenere o la conferma al partito che abbiamo già deciso di prendere. In pratica non si impara, non si analizza, ma si opera un cherry-picking di quello che conferma le nostre certezze precostituite. Il risultato è l’eutanasia dello spirito critico. Riotta ne ha parlato in un editoriale del domenicale del Sole, a luglio.

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  8. @meristemi: no, a me questa visione non convince molto e Riotta men che meno. Credo che il nemico della conoscenza sia le fretta. Se uno va in rete con il preciso intento di trovare delle informazioni “in fretta” perché deve impapocchiare due righe alla bell’e meglio, allora il fenomeno accade come dici tu, ma non era molto diverso a quanto accadeva con il cartaceo di un tempo. L’eutanasia dello spirito critico non avviene a causa della rete. Avviene perché alcuni non vogliono fare la fatica di pensare e leggere quello che trovano in fretta e furia.

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  9. c’è sempre una linea di confine, ed è la lina del rischio, in una irrisolta tensione fra due esigenze:

    da un lato scrivere, parlare, per chi ti comprende, e questo funziona ma se sei troppo prudente, finisci per comunicare solo dentro la tua cerchia e, in qualche modo, sei come un oste che ha il vino buono ma se lo beve da solo o con i suoi parenti

    quindi è necessario andare oltre il confine delle menti analoghe e vedere se a qualcuno, qualcuno di nuovo, quel che scrivi interessa, ma ovviamente c’è il rischio di incappare in chi non comprende il contesto, e ti manda come si dice con alata parola affanculo (e chissà forse ha ragione)

    non so, io propendo per varcare poco il confine, anche se il rischio di scrivere allo specchio, per puro narcisismo, esiste

    ma tanto, per me son tutte cose non pagate, io vivo d’un altro mestiere, che mi importa?

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